Quell’isolotto di(vino) nel Mediterraneo

Ormai viaggiare è normalità. Conosciamo ogni isola della Grecia, tutte le località più in della Spagna, il preciso percorso della crociera tra i fiordi norvegesi. Ma l’Italia? Quanto sappiamo davvero del nostro Paese? Me lo sono chiesto quando raccontando del mio ultimo viaggio a Pantelleria agli amici, mi veniva puntualmente posta la stessa domanda: dove si trova Pantelleria? Ecco, non basterebbe un’enciclopedia intera per raccontarla, ma in queste righe proverò a spiegarvi dov’è e cos’è Pantelleria, dal punto di vista di un appassionato di vino, di cibo e soprattutto di Italia.

Pantelleria te la devi sudare, non è quella località da turismo mordi e fuggi. Pochi aerei o un traghetto da prendere a Trapani, non ci sono altre vie. Scordatevi le spiagge di sabbia dorata con il mare dolce e l’acqua alla vita, Pantelleria è un’isola vulcanica: rocce nere ovunque rese quasi incandescenti dal calore del Sole, coste a strapiombo e un mare poco clemente agitato dai venti che quotidianamente attraversano l’isola, lo Scirocco e il Maestrale. I vulcani sono affascinanti, ma ci si deve stare su un vulcano per rendersene conto. Si ha come la sensazione di essere di fianco ad una divinità e perché no, forse è davvero così. Forse è per questo che tutto ciò che nasce a Pantelleria ha un sapore diverso. E nei secoli questa miracolosa fertilità della roccia vulcanica è stata capita, sfruttata e valorizzata dai panteschi, che da sempre portano in palmo di mano l’agricoltura e l’allevamento a discapito della pesca, di cui (sembra incredibile) non c’è una vera e propria tradizione a Pantelleria. Il mare aperto, di cui l’isola è vittima, è sempre stato portatore di calamità soprattutto umane: popoli potenti, pirati e conquistatori sbarcavano, saccheggiavano e sottomettevano la popolazione locale, ingolositi da quel crocevia così cruciale nelle rotte e nei commerci mediterranei. E così i panteschi hanno finito col diffidare del mare, portatore di dolore, gli hanno voltato le spalle e hanno iniziato a coltivare. Oggi, dopo un paio di millenni di storia e una manciata di popoli ad imprimere la propria cultura sull’isola, possiamo godere di una tecnica di agricoltura unica al mondo, che trova il suo culmine nella viticoltura. Ma andiamo con ordine. Le popolazioni di Pantelleria hanno da sempre dovuto confrontarsi con tre difficoltà: moltissima roccia e poca terra nel sottosuolo, temperature elevate accompagnate da venti dalla forza poderosa, scarse precipitazioni. Riguardo al primo impedimento, i contadini panteschi hanno dovuto ricavarsi con il sudore la terra da coltivare, estraendo le pietre dal suolo e trasformandole in incantevoli muretti a secco e abitazioni dallo stile arabeggiante, dette Dammusi, suggellando così un paesaggio unico nel suo genere.

 

Quanto alle condizioni climatiche, è qui che l’ingegno umano raggiunge il suo apice. Partiamo dall’ulivo. Le piante, solitamente monumentali e rigogliose sviluppate in altezza, qui vengono portate grazie alla potatura ad uno sviluppo orizzontale invece che verticale: letteralmente degli ulivi striscianti a 30 centimetri da terra, che costringono l’uomo ad una raccolta faticosa e manuale, ma che preservano la chioma dal forte vento. Ma non è finita qui. Girovagando per l’isola si notano innumerevoli piccoli arbusti che paiono quasi degli alberi bonsai. Si tratta del leggendario “Alberello Pantesco”, la tecnica di viticoltura dichiarata Patrimonio Immateriale dell’Umanità dal 2014. Nei secoli a Pantelleria si è capito che l’unico modo per riuscire ad allevare la vite era questo: sviluppo della pianta ad albero nano (alberello appunto) cosicché la ridotta dimensione salvaguardasse la pianta dal vento e che le foglie potessero proteggere l’uva dalle bruciature del Sole. Si scavano delle conche attorno ad ogni alberello, per permettere alla poca acqua piovana e all’umidità di accumularsi quanto più possibile, andando a nutrire la pianta. Geniale.

È così che l’uva Zibibbo può nascere e crescere, donandoci quel nettare che oggi è il Passito di Pantelleria, vino dolce rinomato nel mondo frutto di un tecnica di appassimento introdotta, così come la straordinaria varietà zabib, dagli arabi nel IX secolo. 

Esiste però un’ultima, prodigiosa coltura sull’isola, simbolo del Mediterraneo e che a Pantelleria trova la propria sublimazione, elevandosi a vero e proprio simbolo: il cappero. Prodigiosa la pianta di cappero, si fa spazio di forza tra le rocce dei muretti a secco, spunta sui lati delle strade e viene ordinatamente coltivata in filari dagli agricoltori. Non può esistere Pantelleria senza cappero, qui è tradizione, tanto che ci hanno costruito anche un museo. Una IGP, il cappero di Pantelleria, di qualità superiore e ricercato dai migliori chef del mondo, perché più dolce, quasi fosse una caramella.

Che siano tutti questi straordinari frutti merito del vulcano? Che sia tutto questo ingegno umano merito delle sofferenze patite nei secoli? Dovreste rifletterci, seduti su una calda roccia nera, ammirando il mare inquieto, con un po’ di Scirocco a scompigliarvi i capelli, mentre sorseggiate un calice di dolce Zibibbo passito. Proprio su quell’isolotto divino al centro del Mar Mediterraneo che è Pantelleria.

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Pubblicato da: Redazione il 2/12/2024

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